L’altro giorno ho dovuto chiamare un numero verde per la ricerca di una spedizione che non arrivava, e di cui non riuscivo a tracciare il codice online.
Ho dovuto ascoltare la musichetta di attesa per 20 minuti, dopo aver riagganciato quattro volte perche “le linee erano occupate per l’intenso traffico telefonico”.
A parte la sensazione di grande sollievo quando finalmente un essere umano, invece di una voce automatizzata, ha risposto all’altro capo del telefono, non ho potuto fare a meno di notare che l’irritazione per l’attesa ormai mi sale per qualsiasi situazione in cui il tempo richiesto mi sembra “irragionevole”: 8 minuti per la metropolitana? Assurdo! 10 minuti per un panino al bar? Oltraggioso! Mezz’ora per comprare il biglietto per una mostra? Non scherziamo…
Boh, forse sarò irrimediabilmente una milanese imbruttita o forse, come molti, sono estremamente condizionata dalla velocità a cui tutto si muove, sempre.
Corriamo tutto il giorno, facciamo mille cose contemporaneamente, ci sentiamo “efficienti”…e poi quando qualcosa ci costringe a fermarci, arriva l’ansia di “perdere tempo”.
Ma cosa ce ne facciamo, veramente, di quel tempo?
Perchè ci è così difficile aspettare?
Il paradosso del mio lavoro è che spesso implica di trovarmi di fronte clienti che mi pongono le stesse domande che io faccio a me stessa, ma la cosa bella è che con loro la risposta la trovo (solita storia del ciabattino con le scarpe rotte…)
Quindi, quando qualcuno che ha iniziato un percorso mi dice “sì, le cose vanno meglio ma vorrei vedere risultati più tangibili più velocemente…”, io mi trovo a rispondere: “quanto tempo ci è voluto per creare la situazione in cui sei ora? Vogliamo usarne almeno un decimo per cambiarla?”
Oppure, se i cambiamenti ci sono ma, come spesso accade, da dentro è più difficile vederli, ricordo loro da dove sono partiti: spesso è solo guardando indietro che ci si accorge di quanta strada è stata fatta.
E tu, che rapporto hai con l’attesa? E col tempo in generale?
Se ti va, condividilo nei commenti!